LIBERTA'
- Claudio
- 24 dic 2021
- Tempo di lettura: 7 min

Anno Domini 1975. È il mio primo anno di vita. Anzi dovrei dire che è il mio primo mese di vita, perché già so che tra un mese mi metteranno a dormire. E il mio sonno sarà lungo undici mesi. Conto i giorni che mi separano da una scatola. Avvolta in un giornale, in un pezzo di giornale, che non mi permetterà neanche di leggere l’articolo che vi è stampato. Andrò a dormire in una scatola, avvolta in un pezzo di giornale, in una posizione scomoda: accanto a me altre decine di miei compagni, qualcuno amico e qualcuno nemico, che saranno anche loro avvolti in un giornale, in un pezzo di giornale. Faremo una brutta fine, che durerà undici lunghi mesi, dopo che nel nostro mese di vita avremo goduto del calore di tante luci colorate, intermittenti, in mezzo ad un prato verde che odora di plastica e circondati da montagne che odorano di carta. Andremo a dormire per un lungo periodo dopo essere stati testimoni della falsità di chi ci muove, ci sposta, ci posiziona e riposiziona, ci incarta e ci depone nello scatolone. Perché tra trenta giorni, o forse meno o forse più, andrò a riposare, almeno spero, dentro uno scatolone insieme a decine di miei amici o nemici. È l’Anno Domini 1975 ed è il mio primo anno di vita. Questa sarà la mia vita, me lo hanno detto quelli come me. Speriamo che non mi rompa, perché voglio raccontare il mio secondo anno, o meglio, mese di vita.
Anno Domini 1985. Ormai sono dieci anni che vivo nello stesso modo. Quando arriva la fine dei miei undici mesi di letargo, vengo scartata, controllata se sono ancora tutta intera, messa in maniera disordinata su un tavolo, insieme ai miei amici e nemici, anche loro scartati e controllati nella loro interezza. Sono dieci anni che nel mio mese di vita sono circondata da prati di plastica e montagne di carta. Anche in questi miei ulteriori trenta giorni di vita, o forse meno o forse più, vedrò la falsità di chi mi ha messo in questo paesaggio artificiale, con luci intermittenti che scandiscono il mio tempo (accese spente, accese spente). Saranno sempre loro, coloro che vivono nella falsità, che con l’anno nuovo, quando dovrò andare di nuovo a dormire per lunghissimi undici mesi, mi incarteranno in un pezzo di giornale e mi metteranno in una posizione scomoda dentro uno scatolone. Avrò sempre vicini i miei amici, ed anche i miei amici, con i quali ho condiviso questo breve periodo di luce. Resterò al buio dentro lo scatolone, che sarà riposto in un luogo umido chiamato cantina, sperando sempre di risvegliarmi dopo il mio periodo di letargo tutta sana, tutta intatta e senza una scheggia che possa deturparmi.
Anno Domini 1995. Che fortuna poter vivere un altro mese dopo vent’anni che sono nata. Ho visto tanti miei amici e nemici che hanno dovuto abbandonare questa triste avventura, andando a finire dentro una scatola tonda. Era una scatola diversa da quella dove ormai sono abituata a dormire da tutto questo tempo. Non era di cartone, ma di plastica. Non era squadrata, ma tonda. Non sono stati avvolti in un pezzo di giornale, ma sono stati buttati lì senza essere stati di nuovo incartati. Si erano rotti: questo il motivo per cui quelli che vivono nella falsità hanno deciso di compiere un gesto insano. È brutto quando vedi che alcuni amici, ed anche alcuni nemici, non sono più apprezzati e fatti sparire per sempre, solo perché non erano interi. Non hanno neanche provato a ricomporli, tranne quello seduto su un animale con quattro zampe e due gobbe. Non hanno neanche provato il minimo rimorso per quello che hanno fatto. Sono fortunata a passare questi miei trenta giorni, o forse meno o forse più, in mezzo al solito prato di plastica e circondata da montagne di carta. Anche le luci intermittenti colorate sono sempre le stesse, con gli stessi tempi (accese spente, accese spente), con lo stesso ticchettio. Anche la falsità che profuma l’aria dove vivrò questo mese è la stessa che ho odorato nei miei vent’anni di esistenza. Ci sarà poi il solito pezzo di giornale, dove non riuscirò a leggere l’articolo. Ci sarà lo stesso scatolone, squadrato e di cartone, dove sarò scomodamente riposta, avvolta nel giornale, insieme ai miei amici e nemici. E ci sarà sempre quel posto buio e umido, chiamato cantina, dove riporranno la scatola di cartone per undici lunghissimi mesi. La solita vita mi attenderà, sperando di svegliarmi, al termine del mio letargo, ancora fortunata per non essermi rotta o scheggiata.
Anno Domini 2005. Anche quest’anno mi ha detto bene: sono tutta intatta, neanche un graffio. Qualche amico e qualche nemico, compagni di scomodissimi letarghi lunghi undici mesi, hanno fatto la solita brutta fine: la solita scatola tonda, quella di plastica. Buttati dentro senza pietà, senza essere incartati. Solo due si sono salvati, solo perché avevano delle piume dietro le spalle chiamate ali! Mah…! Sono arrivati nuovi compagni, più brutti di noi, che ormai siamo diventati vecchi e storici. Li hanno messi in mezzo a noi senza chiederci il permesso, senza sapere se ci fossero simpatici o antipatici. Quest’anno, Anno Domini 2005, c’è qualcosa di diverso nell’aria. Non riesco a capire. Sono stata sempre avvolta in un pezzo di giornale, dentro il solito scatolone di cartone. Quando era il momento di svegliarmi, sono stata scartata, controllata e posizionata in un paesaggio finto, come la falsità di coloro che mi maneggiano. Non il solito paesaggio che avevo imparato a conoscere nei miei trent’anni, o meglio, mesi di vita. Non solo prati di plastica e montagne di cartone. Anche fastidiosi granelli di sabbia, tra i quali sono affondata e mi sono sporcata. Sono entrati dappertutto, fin dentro le mutande, anche se non so se ho mai indossato mutande. Non c’era neanche il noto fastidioso ticchettio (accese spente, accese spente) delle luci colorate. Sono sparite. Mi è mancato. Una serie di piccole fiammelle, le ho sentite chiamare candeline, tutte dello stesso colore, emanavano un vero e proprio calore. Ho avuto paura. Rischiavo di bruciare. Ho odiato coloro che vivono nella falsità di questo mese, giorno più giorno meno, perché hanno attentato della mia vita e a quella dei miei amici e dei miei nemici. Ci hanno fatto vivere nel deserto. Un paesaggio diverso da quello degli anni scorsi. Un paesaggio che non ci appartiene. Io con la mia pecorella, il mio amico con le caldarroste, il vecchietto con la zampogna e il bambino vestito invernale, con il suo pon pon di lana. Anche il pescatore ha avuto una crisi di identità. Ma questa è la nostra infame vita, in questi trenta giorni, giorno più giorno meno, dopo i quali torneremo ad essere avvolti in un pezzo di giornale, con il solito articolo illeggibile e la solita posizione scomoda, tutti azzeccati in uno scatolone, non più di cartone, ma di plastica, come quello tondo che decreta la fine della nostra esistenza. Uno scatolone appena uscito da una fabbrica svedese. Dicono che ci preserverà dall’umidità della cantina e che le mie ossa saranno meno fragili. Sempre che io abbia le ossa.
Anno Domini 2015. Sono negli “anta”. Un bel traguardo raggiunto. Non una ruga o un acciacco. Tutta intatta, così come sono nata. Neanche mi sono scolorita. La stessa cera di sempre, così come il vestito verde che indosso, mentre abbraccio la mia nemica pecorella che non è mai cresciuta. Come sono rimasta sempre bambina io. Una bambina di quarant’anni. I miei compagni, amici e nemici, vecchi e nuovi, sono sempre accanto a me, in questo paesaggio falso, come il sentimento di coloro che addobbano le case, nel mese più freddo dell’anno, e festeggiano un qualcosa che non gli appartiene. Un anno: prati di plastica e montagne di carta; un altro anno: deserto sabbioso che odora di mare. Un anno: luci colorate intermittenti (accese spente, accese spente); un altro anno: fiammelle calde che attentano la mia vita e quella dei miei amici e nemici. Trenta giorni, qualcuno in più qualcuno in meno. Il solito pezzo di carta, di giornale o patinato che sia, che mi avvolge e mi ripara da possibili scheggiature o rotture. La scontata routine di una statuina del presepe, che spera di non finire in uno scatolone squadrato per essere dimenticata, come tutti gli anni, per undici lunghissimi mesi. Una povera pastorella maltrattata che si augura di essere distrattamente dimenticata, chissà dove in questa casa, quando è arrivato il momento di essere incartata. Per poter vedere le luci di questa casa, oltre i trenta giorni che gli sono stati concessi di vivere per ognuno dei suoi quarant’anni di vita. Una vita triste, la mia, una vita che rende felici solo coloro che vivono nella falsità, in questo mese che chiamano Natale.
Anno Domini 2016. Questo è il mio anno. È arrivato il mio momento. Voglio dire basta a questa vita falsa, come chi mi maneggia. Basta a prati di plastica o deserto marino. Basta a scomodi lunghissimi undici mesi, azzeccata ai miei compagni, qualcuno amico e qualcuno nemico. Voglio cadere. Voglio rompermi. Voglio dire addio a questa mia triste vita, inutile, ripetitiva, fredda e monotona. Voglio vedere come sarà quando mi butteranno, senza pietà, dentro il contenitore di plastica, quello tondo, quello che per loro mette la parola fine. Voglio andare a trovare i miei amici e i miei nemici che se ne sono andati in questi quarant’anni, senza aver avuto la possibilità di salutarci. Voglio provare nuove emozioni.
Sono caduta. Mi sono lanciata dal tavolo. Insieme alla mia nemica pecorella. Ora non siamo più insieme. Io sotto il tavolo e lei a qualche centimetro da me. Finalmente sono sola. Mi hanno raccolto. Aspetto che mi buttino nella scatola tonda, senza più un pezzo di giornale che mi avvolga. Aspetto che le luci intermittenti (accese spente, accese spente) o le fiammelle che emanano calore si spengano per sempre. Aspetto.
Non succede nulla. Non capisco. Un freddo gel mi sta invadendo. È appiccicoso. Non capisco. Vedo la mia nemica pecorella. È di nuovo vicino a me. Anche lei ha quel gel appiccicoso che puzza di acido. Non capsico. La sto abbracciando di nuovo. Il naso, sempre che io abbia un naso, è invaso dall’odore acre di quell’impiastro appiccicoso. Sto di nuovo baciando la pecorella, con il suo alito puzzolente, sempre che lei abbia un alito. Non capisco.
Mi hanno aggiustata. No! Mi vogliono ancora con loro, quelli che vivono nella falsità. Sento dire, da uno di loro, che ero la sua statuina del presepe preferita. Che amava posizionarmi anche se ero completamente fuori misura dai miei amici e nemici. Che per lui il Natale non ha senso senza la mia presenza.
Sono predestinata. Sono predestinata a far essere felice la gente falsa in questo periodo falso. Sono predestinata a vivere questa vita infelice, non so ancora per quanto.
Io, che volevo essere libera.
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